Gustamodena.it - Trova e Gusta ristoranti a Modena e provincia
Benvenuto, serve aiuto? Clicca qui Benvenuto! Registrati oppure
Accedi attraverso il Gustanetwork

La lavagna - Modenesità

"Peccati di gola" di Dario Zanasi

GROG
Scritto il 15/12/2008
da GROG
Ho trovato su una vecchia rivista queste righe che sto a proporvi, di Dario Zanasi, articolo tratto dalla rivista "modena" mensile economico della camera di commercio - anno LXIX - 1963.

Questione di gusto.
Questione di quel complesso di sentimenti, di inclinazioni, di sottofondo morale che guida segretamente i nostri privati problemi estetici. Io, se dipendesse da me, saprei che casa scegliermi, di quali mobili e di quali suppellettili circondarmi.
Esatto. L'avete capito subito, benevolmente, e vi ringrazio. E infatti mi piacerebbe vivere in una casa modenese genuinamente ottocentesca, in una casa in cui confluissero tutti gli stili e le tendenze di un secolo che a me pare il più amabile di tutti, il più affettuoso di tutti, almeno per quanto riguarda la vita familiare.
Se mi domandaste notizie più esatte vi potrei rispondere affermando che questa scelta è dovuta probabilmente al rosso infuocato dei garibaldini; ai lunghi e tintinnanti pranzi domenicali; alle oleografie dell'Ernani e del Rigoletto che una volta erano disseminate nelle osterie di campagna; ai gianduiotti che nascondevano sotto la stagnola una frase d'amore; ai mistrà che frustavano la gola di chi si alzava prima dell'alba e sentiva il bisogno di sconfiggere il residuo umidore della notte.
Vorrei poter vivere, sicuro, in una casa adorna di quadri raffiguranti personaggi che potevano essere ministri, prefetti o fattori di campagnola memoria, (rivedo le loro facce baffute, leggermente incarnate nei pomelli, rivedo i loro panciotti, vivacemente fantasiosi, che assommavano in egual misura colore e calore). Vorrei poter vivere in una casa coi salotti pieni di Capodimonte e di medaglioni dalla cornice nera; in un'abitazione coi letti di ferro dai pomi d'ottone che luccicavano tanto al sole quanto nella penombra; con la cucina spaziosa quando un tempio e ricoperta alle pareti di stampi di rame dell'epoca (non di quelli, fasulli, che sono venuti di moda oggigiorno).
Dopo questa premessa è facile capire perché fra i miei autori prediletti ci sia pure il romagnolo Pellegrino Artusi, scrittore ancor più cordiale di una nonnesca torta di visciole, di una polverosa bottiglia di barbaresco, di un gelato di crema fatto nell'affaticante sorbettiera di casa, immersa nel sale Grosso e scuro. Ci sono dei libri che non ci si stanca mai di leggere e di rileggere. Sul mio comodino tengo devotamente in prima vista I Promessi Sposi, il Guglielmo Meister di Goethe, che è una storia casalinga e borghese, di quella borghesia che si accingeva a diventare protagonista della storia; e poi il Testamento di Villon (col suo linguaggio brigantesco e sublime), il Lazzarino di Tormes, minuscola Bibbia di umanità e d'arguzia, e infine La Scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, l'opera artusiana che ha insegnato le delizie della tavola a tre generazioni. Tuttavia, aggiungo, sono anche un sincero ammiratore di Ada Boni, della sua minuziosa e quasi eroica diligenza nel raccogliere e nel descrivere le ricette di tutti i paesi italiani,
ognuno dei quali ha, si può dire, il proprio cavallo di battaglia, il proprio ghiotto breviario capace di confortare e, qualche volta, di entusiasmare il forestiero. Anzi, devo dire, a proposito di questa gentile scrittrice dai capelli bianchi, d'esser stato a lungo in imbarazzo in occasione dell'assegnazione dell'ultimo Trofeo Bologna. Facevo parte della giuria insieme con Flora Volpini, Massimo Rendina, Severo Boschi, Enrico Guagnini, Massimo Alberini, Giorgio Fini, e altri valorosi amici. Carnacina, non vi è dubbio, ha grandissimi meriti. Il premio è andato giustamente a lui, sia pure per pochi voti di maggioranza. Però, fra noi, c'era chi voleva premiare Ada Boni, amica fedele delle nostre spose e delle nostre mense.
Minestra di strichetti alla modenese: « Si chiamano strichetti delle specie di farfalline fatte con pasta all'uovo. Si fa una pasta calcolando per ogni uovo un centinaio di grammi di farina, venti grammi di parmigiano grattato e un pò di noce moscata. Tirata la sfoglia, si divide con la rotella in tanti quadratini di circa due centimetri e mezzo di lato. Ottenuti i quadratini, col pollice e con l'indice della mano destra si riavvicinano il lato superiore e quello inferiore . . . ». � questa una delle tante ricette d'origine modenese, raccolte dallo zelo della nostra sapiente signora. Una minestra semplice, come vedete, che dovrà essere insaporita con qualche fegatino e qualche rosso d'uovo diluito a parte, con un pò di brodo, e aggiunto fuori del fuoco a cottura della minestra stessa. Ma la cucina modenese, ripeto ancora una volta, ha proprio questo vanto, di raggiungere cioè grandi altezze anche nei piatti più semplici, nei piatti che non richiedono ore di lavoro. Chi non ricorda, ad esempio, le intramontabili glorie dei maltagliati con fagioli? Un inno. Un poema. Un razzo nel cielo della gastronomia geminiana d'origine campagnola.
In questo momento l'amico Candido Bonvicini mi pone davanti le belle fotografie del fotocronista Alceo Tronchè, il quale con un'emblematica composizione, riassume i più famosi monumenti della città del Tassoni e i piatti più celebrati della sua cucina. Lo zampone, i tortellini, gli amarelli formano un corale trofeo davanti all'insigne monumento romanico del Duomo, davanti a quella Ghirlandina che è un marmoreo ricamo offerto al cielo, davanti a quel Leviathan di pietra che è il secentesco Palazzo Ducale.
Fino a pochi anni fa i tabaccai vendevano ancora (e forse le vendono anche oggi) cartoline raffiguranti le tre specialità di Modena - la Ghirlandina, lo zampone e il lambrusco - e il tutto era accompagnato da un'ingenua poesiola di gusto popolare, di quel gusto che imperava ai tempi dei tirabaffi e dell' acqua di Chinina Migone. Il bravo Alceo non ha fatto che dare una veste moderna alle sintesi che piacevano agli inizi di questo secolo, quando le donne si gloriavano di una capigliatura lunga fino ai ginocchi. Gli zamponi e i cotechini, sinonimo di fumanti mense natalizie, si sono accostati ai genietti alati di Wiligelmo, alle storie della Genesi, alle fantasiose e vigorose decorazioni del protiro della porta maggiore del Duomo. I piatti più raffinati e succulenti dell'arte gastronomica modenese si sono sostituiti ai cocchi a quattro o a sei che in una giornata della tarda primavera uscivano dal Palazzo Estense per raggiungere la sede estiva di Sassuolo, ai piedi del dolce Appennino.
Dalla collina, quando cominciava a morire l'estate, giungevano in abbondanza - se il tempo era favorevole, cioè caldo e umido - quegli ovoli e quei porcini (ora cari come l'oro) che suggerirono alle nostre nonne quell'inarrivabile piatto che sono i funghi trifolati. Ma i poveri, purtroppo, mangiavano polenta e, per nobilitarla, per dare ed essa una parvenza dì pietanza, inventarono i calzagatti, che è polenta condita coi fagioli.
Vorrei anche ricordare, fra i grandi piatti della cucina geminiana, i capponi ripieni, i polli e i galletti arrosto, (purché provenienti da quella libera avifauna che dà uno speciale sapore alle carni), magari con un contorno di palatine novelle e di insalata condita col vero aceto balsamico. Anche i dolci al cucchiaio figurano nell'araldica della cucina di Modena. Leccornie, s'intende, che esigono un lambrusco genuino, frizzante, allegro come un fuoco d'artifizio, come la vampata del camino che c'invita a stendere e ad aprire le mani.